Safe House – Nessuno è al sicuro – Recensione
Tobin Frost (Denzel Washington) è uno dei migliori agenti che la CIA abbia mai addestrato, ma ad un certo punto della sua brillante carriera ha cambiato rotta tradendo l’agenzia e vendendo informazioni top secret a servizi segreti e nemici dello stato. Evitata la cattura per più di dieci anni si rifà improvvisamente vivo a Città del Capo consegnandosi spontaneamente al consolato americano.
Viene quindi portato in gran segreto in una Safe House, un luogo segreto in cui la CIA tiene in custodia testimoni e criminali, e lì interrogato con metodi poco ortodossi, finché un gruppo di mercenari non irrompe con la forza nell’edificio decisi a far fuori la spia e impadronirsi delle preziose informazioni in suo possesso.
Sarà compito del “custode” della Safe House, la giovane recluta Matt Weston (Ryan Reynolds), proteggere Frost e aiutarlo a scappare in una lunga fuga in cui l’esperto manipolatore metterà a dura prova l’etica e l’idealismo del giovane agente segreto.
Nell’incontro/scontro tra la recluta leale e il veterano che ha tradito il regista, lo svedese Daniel Espinosa, gioca le sue carte in un gioco in cui buoni e cattivi si dovrebbero confondere e in cui ognuno dovrebbe esser altro da ciò che sembra, il condizionale in realtà è d’obbligo perché alla fine il marcio è proprio lì dove te lo aspetteresti.
Il “duello” tra i personaggi trasborda anche a livello attoriale, dove l’interpretazione di Denzel Washington contribuisce con un apporto determinante ad una pellicola difficilmente immaginabile senza la sua presenza scenica. Così come Tobin Frost si prende più volte gioco del novellino Weston, che ha grandi obiettivi ma un incarico fin a quel momento sedentario ed isolato che lo scontenta e ne castra le ambizioni, così Washington, in un ruolo che sembra fatto apposta per lui, sovrasta Reynolds sulla scena fino a farlo sembrare davvero un timido debuttante.
Con i suoi inseguimenti nevrotici, le sparatorie confuse e i combattimenti a mani nude Safe House nutre fino alla saturazione il desiderio di azione dello spettatore con un risultato in fin dei conti più che soddisfacente ma spesso esagerando. Attraverso l’uso di colori saturi e di una pellicola “granulosa” che ricorda certe applicazioni per invecchiare le foto, Espinosa ricorre ad una regia frenetica, tutto movimenti e poche pause, la macchina da presa si muove convulsa catapultando lo spettatore al centro dell’azione col risultato di sballottarlo fino al “rincogliment”.
Safe House è in fondo intrattenimento puro con l’ambizione di accostarsi alla saga di Jason Bourne, che il regista e lo sceneggiatore David Guggenheim hanno sicuramente visto e apprezzato, ma un maggiore approfondimento psicologico e una certa riflessività avrebbero forse migliorato il risultato finale aiutando lo spettatore a non lasciare il cervello in standby.
Daniele Finocchi