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Second chance – Recensione

Susanne Bier si è ripresa, almeno sembra. Dopo l’inguardabile Serena – Una folle passione, torna al film drammatico duro e crudo come quello che le fece vincere l’oscar nel 2010 con In un mondo migliore. Con Second Chance, infatti, cade il Velo di Maya della famiglia perfetta e ci mette davanti i drammi, gli impulsi e i segreti che un essere umano può avere e fin dove esso è in grado di spingersi per sopravvivere.

Protagonista di questa pellicola Nikolaj-Coster Waldau, che interpreta Andreas un poliziotto che vive una vita che sembra perfetta: ha una moglie, Anna, e un bambino piccolo. Il destino cambierà quando la loro esistenza si incrocerà con quella di una famiglia che vive tra violenza e droga.

Susanne Bier avvicinandosi ad un certo tipo di cinema più americano, decide di raccontare la crudeltà di Second Chance attraverso una messa in scena tipicamente europea, meno sfarzosa, più minimal e, sicuramente, più vicina alla realtà e, proprio per questo, riescendo a colpire maggiormente l’immaginario dello spettatore. Repressione, odio celato nell’amore, nascosti davanti ad una maschera d’apparenze e codici comportamentali che esplodono in una furia cieca, mai grottesca e sempre fortemente legata alla vita vera.

A soprendere maggiormente è la modella Lykke May Andersen, nel ruolo di Sanne, un personaggio complesso al quale la Bier è fortemente legata, riservandole i difficilissimi primi piani che Andersen riesce a sostenere nel migliore dei modi. Terzo protagonista è proprio e finalmente la regia.

Susanne Bier sembra aver ritrovato con Second Chance la sua autorialità giocando con la macchina da presa e rendendo comprensibile il rapporto tra Andreas e Sanne, legandoli attraverso i giochi di sguardi in una ciclicità che si ritrova nel finale  così tenicamente e poeticamente concepito.

In Second Chance la raffinatezza della sceneggiatura si contrappone ad una messa in scena cruda che mette a confronto due realtà completamente opposte che spiazzano lo spettatore, lasciandolo a riflettere in un senso di frustrazione e impotenza che solo il grande cinema d’autore riesce a far emergere. Sì perché secondo la Bier non esistono distinzioni nette, ci sono sempre delle sfumature che toccano la nostra esistenza. E così il nero non lo sarà mai del tutto e il bianco uguale, bene e male si alimenteranno a vicenda sopravvivendo solo grazie all’esistenza dell’altro.

Sara Prian

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