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Selma – La strada per la libertà – Recensione

Selma, una cittadina dell’Alabama, ma soprattutto un luogo-simbolo. Oggi come ieri.
Nella primavera del 1965 un gruppo di manifestanti coraggiosi guidati dal Dr. Martin Luther King per ben tre volte tentò di portare a termine una marcia simbolica che, partendo da Selma, doveva arrivare a Montgomery, capitale dell’Alabama, con l’obiettivo di arrivare ad ottenere l’imprescindibile diritto umano al voto per i cittadini neri. Lo scopo era quello di rivendicare la registrazione nelle liste elettorali da cui di fatto i neri erano esclusi negli Stati segregazionisti del Sud che mettevano in atto attentati, repressioni violente e omicidi ad ogni tentativo dei cittadini neri (inoltre, soprattutto in Alabama, gli ufficiali civili sottoponevano alle persone di colore, che richiedevano di registrarsi per votare, test pieni di domande assurdamente difficili studiate apposta per farli fallire). Le marce avevano lo scopo di smuovere la coscienza del Presidente Lyndon Johnson che l’anno precedente aveva emanato il ‘Civil Rights Act’ ma che prendeva tempo perché occupato su più fronti delicati. Ma il Dr. King non poteva più aspettare. Ed ecco che il leader, pur tra dubbi e discussioni interne al movimento, decise di procedere con la marcia.
Domenica 7 marzo 1965 il primo tentativo di marciare da Selma a Montgomery venne bloccato da poliziotti stradali e locali al ponte Edmund Pettus: 600 dimostranti sono picchiati e respinti con gas lacrimogeni. E’ il tristemente noto “Bloody Sunday” che entrò nelle televisioni di tutti i cittadini con le sue strazianti immagini. Il moto di indignazione che scattò in molte persone portò alla successiva marcia, due giorni dopo, cui parteciparono centinaia di persone di ogni colore e credo religioso: ma questa volta la folla, su decisione di King, si ritirò al fatidico ponte temendo la violenza degli agenti stradali. La giornata diventerà famosa come “Turn Around Tuesday”. Bisognerà arrivare al 21 marzo, dopo l’annuncio del Presidente Johnson di voler introdurre il ‘Voting Rights Act’, quando i dimostranti lasciarono Selma per la marcia che si concluse il 25 marzo a Montgomery. Lo stesso giorno King pronunciò uno storico discorso sugli scalini dello State Capitol. Il 6 agosto dello stesso anno il Presidente Johnson firmò lo storico ‘Voting Rights Act’.  
Il bel film della quarantaduenne regista californiana (la cui famiglia è originaria dell’Alabama) Ava DuVernay (qui al suo terzo lungometraggio) è un’opera fondamentale e, senza esagerazioni, storica.
Oltre a essere il primo film a concentrarsi realmente sugli aspetti importanti della vita di Martin Luther King e a rendere verità storica al movimento per il diritto al voto, Selma è un’opera che fa scendere dal piedistallo di icona intoccabile la figura di King, mostrandolo come un essere umano con debolezze e difetti, ma anche dotato di una forza, una passione, un ardore come pochi. Non un leader solitario, un eroe da identificare con una statua o un mito tutt’uno con i suoi discorsi: intorno a lui, tanti uomini e donne ebbero un ruolo fondamentale nel costruire e far maturare il movimento.
Altro merito del film è quello di essere riuscito a mostrare aspetti poco conosciuti nella storia di quei mesi cruciali per gli Stati Uniti e per il mondo intero: l’offerta di aiuto di Malcolm X (assassinato nel febbraio del 1965), le tanti voci contrastanti interne al movimento, la potente influenza della controversa figura del direttore dell’FBI Edgar J. Hoover. E poi la violenza, brutale, cieca, assurda, proprio perché compiuta su persone inermi armate solo del coraggio e della forza di rischiare la morte pur di ottenere i propri diritti.
Senza King, senza le sue lotte, non ci sarebbe stato oggi Obama, senza di lui e il movimento degli anni Sessanta, i neri non avrebbero le molte libertà di oggi. Ma il film getta anche luce sul prezzo pagato per tutto questo e su una fondamentale idea di altruismo: ‘i Kingsmen’, come ha soprannominato la regista il gruppo di attivisti che gravitava attorno al Dr. King, compirono azioni eroiche pur non essendo dei supereroi, agendo per amore e a dispetto dell’odio.
Unico difetto del film, l’eccessiva verbosità della sceneggiatura Paul Webb, comunque frutto di un lavoro immenso, strutturato sulla base dei rapporti di sorveglianza dell’FBI (King fu seguito in ogni mossa con il risultato di un file di 17.000 pagine che tracciavano tutti i momenti della sua vita) e che ripercorre eventi tragici: dal bombardamento di una chiesa di Birmingham nel 1963 mostrato nell’incipit, fino alla firma del ‘Voting Rights Act’ nell’agosto del 1965.
Ma ciò non intacca l’importanza della pellicola e la grandezza dell’interpretazione di David Oyelowo (che aveva già lavorato con la DuVernay in Middle of  Nowhere, vincitore del premio per la Migliore Regia al Sundance Film Festival nel 2012) la cui determinazione è durata ben sette anni per ottenere un ruolo per cui si sentiva in un certo qual modo predestinato, nonostante sia nato e cresciuto in Gran Bretagna (paradossalmente un vantaggio per guardare con necessario distacco alla figura di King). Il suo Dr. King non è un’imitazione (o peggio una caricatura), è un uomo vero, e merito di Oyelowo è averne restituito in pieno le lacrime e il sangue. Un vero peccato la sua mancata candidatura Oscar nella categoria di miglior attore protagonista.
Ma, data la riuscita di un film che gioca su un realismo misurato offrendo una visione caleidoscopica di tutti gli strati della società (due le candidature agli Oscar, migliore pellicola e migliore canzone), vogliamo sottolineare anche come sia un’occasione mancata anche l’assenza di Ava DuVernay nella cinquina dei migliori registi in corsa per l’ambita statuetta.

Elena Bartoni
 

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