Silence – Recensione
La ricerca della voce di Dio, di quel verbo che si fece carne, la preghiera, la compassione, la sofferenza ma anche i dubbi, l’abbandono della Fede e la volontà di salvare la propria pelle a dispetto del proprio credo. Silence è tutto ciò e molto di più, perché l’ultima fatica del maestro Martin Scorsese si districa tra sacralità e realtà umana in un crescendo di significati visivi e non, che portano ad una continua riflessione su chi sia Dio e quanto si è disposti a donare e sacrificare per ciò in cui si crede.
La storia, tratta dall’omonimo romanzo di Shusaku Endo, è ambientata nel 1633. Due giovani gesuiti, Padre Rodrigues (Andrew Garfield) e Padre Garupe (Adam Driver), rifiutano di credere alla notizia che il loro maestro spirituale, Padre Ferreira (Liam Neeson), partito per il Giappone per convertire gli abitanti al cristianesimo, abbia abiurato, ovvero rinnegato la propria fede definitivamente. I due decidono dunque di partire per l’Estremo Oriente, pur sapendo che in Giappone i cristiani sono perseguitati e sottoposti alle più crudeli torture. Una volta arrivati troveranno come improbabile guida il contadino Kichijiro (Yôsuke Kubozuka), un ubriacone che ha ripetutamente tradito i cristiani, pur avendo abbracciato il loro credo.
Due Paesi alle estremità, due culture diverse, credenze e costumi distanti fra loro, epoche lontane secoli dalla nostra, ma nonostante tutto, la questione religiosa è il tema più vivo e discusso: Scorsese mette davanti agli occhi dello spettatore le contraddizioni, le ossessioni e la perdita della Fede.
Simbolo di questo stato d’animo, mistico e umano è Padre Rodrigues, magnificamente interpretato da Andrew Garfield, un sacerdote continuamente in bilico tra preghiera, confessione e volontà di non morire per Dio: si commuove vedendo tutto l’amore e la devozione dei giapponesi ”Kristian” perseguitati e si chiede dove trovino la capacità di dedicarsi e morire per quel ”Deus”.
Patendo la fame, la sete e la violenza, psicologica e fisica, esattamente come Padre Garupe, molto più radicale, martire tra i martiri, Rodrigues finisce per diventare Gesù stesso. E’ facile notare infatti, come il film e le vicende del gesuita siano tempestati di continui rimandi agli importanti episodi della vita di Cristo (i 40 giorni nel deserto, il tradimento di Giuda, la sofferenza della Via Crucis).
Un Figlio di Dio che qui diviene però spettatore, perché in fin dei conti, Padre Rodrigues si pone come voyeur alle vicende: il soffrire delle sofferenze altrui, è il suo prezzo da pagare. Voyeuristica è anche la stessa regia di Scorsese, che abbraccia moltissimo la tecnica dei registi orientali, curata nei minimi particolari.
Silenzio finisce per essere sofferenza, abbandono, la voce assente di Dio nei momenti più angoscianti e dolorosi, intimità e ricerca spirituale. Sensazioni e tormenti che attanagliano anche lo spettatore, il più cinefilo, quello attento e coinvolto, perché questo non è un film per tutti.
Pellicola intensa, momento di sospensione e ricerca interiore, Silence è l’ennesima Via Crucis di Scorsese, dopo un altrettanto toccante film del genere come La tentazione di Cristo (1988), ma anche Kundun (1997), pellicole capolavori del cinema, ma difficili da digerire, pregni di significati, riflessioni e dialoghi complessi, che a seconda di come si interpreta e ci si appassiona, rappresentano la bellezza stessa del cinema di un grande maestro qual è Scorsese.
Alice Bianco