Storia di una ladra di libri – Recensione
Combattere la violenza e l’assurdità della guerra con l’amore per la letteratura, i libri contro l’ignoranza e l’odio cieco, Storia di una ladra di libri non è soltanto l’ennesimo film sulla Shoah ma un’opera che comunica un messaggio importante ed eternamente valido. Racconto di formazione ambientato in una piccola città della Germania negli anni della seconda guerra mondiale, la pellicola segue le vicende della piccola Liesel.
La storia inizia nel febbraio del 1938 quando la bambina, subito dopo la morte del fratellino, viene affidata dalla madre, incapace di mantenerla, ai coniugi Hubermann. Ma mentre Hans, il nuovo padre adottivo, è un uomo buono e gentile, sua moglie Rosa è una donna irritabile e in apparenza severa. Intimidita dai nuovi genitori, Liesel fatica ad adattarsi sia a casa che a scuola dove viene derisa dai compagni perché non sa leggere. La ragazzina è però molto determinata anche perché trova un valido appoggio nel papà adottivo che, nel corso di lunghe notti insonni, le insegna a leggere il suo primo libro. L’amore di Liesel per la lettura e il crescente attaccamento verso la sua nuova famiglia si rafforzano grazie all’amicizia con un ragazzo ebreo di nome Max che, scappato da una retata, viene nascosto dagli Hubermann nello scantinato. Il giovane condivide con Liesel la passione per i libri incoraggiandola ad approfondire la sua capacità di osservazione. Altrettanto importante diventa l’amicizia con il vicino di casa Rudy che prende in giro Liesel per la sua mania di rubare i libri ma che nutre un profondo sentimento per lei.
Tratto dal bestseller La bambina che salvava i libri di Markus Zusak pubblicato per la prima volta nel 2005 che, tradotto in più di trenta lingue, ha venduto più di otto milioni di copie nel mondo, il film parla di una storia piena di dolore e odio ma anche di amore. Una storia per cui l’autore ha tratto ispirazione dai racconti sentiti dai suoi genitori quando era ancora un bambino in Australia.
La parola e il suo grande potere è il tema forte del libro e del film: mentre Hitler sta distruggendo la mente delle persone con le parole, Liesel invece si appropria sempre di più di quelle stesse parole per scrivere una storia assolutamente diversa. La libertà di espressione repressa con la violenza (il rogo dei libri in piazza ad opera del regime nazista è una delle scene più suggestive del film) cui fa da contraltare la conquista del potere che si nasconde dietro alla comprensione delle parole, alla creatività del pensiero, alla capacità di pensare con la propria testa. E’ così che la piccola protagonista diventa l’emblema di quell’attitudine profondamente umana di trovare la bellezza anche nelle situazioni più orrende.
Con il contributo dello sceneggiatore Michael Petroni che ha adattato le 580 pagine del romanzo per il grande schermo, il regista Brian Percival (noto al grande pubblico per la serie televisiva di successo Downtown Abbey) opta per uno stile classico e volutamente didascalico utile a rendere il film accessibile anche alle giovani generazioni che spesso ignorano gran parte della storia del nazismo. Perché, come scriveva Aristotele citato nel film, “La memoria è lo scriba dell’anima”.
Opponendosi alla cieca violenza del regime hitleriano, la protagonista scopre quelle parole che mano a mano impara e che compone in colonne sui muri della cantina come se fosse un dizionario personale, ma anche quelle parole che gli vengono insegnate dal giovane rifugiato ebreo nascosto in cantina. Attraverso le stesse parole Liesel ricambierà il dono, usandole per descrivere al ragazzo il mondo esterno la cui vista gli è preclusa.
Magistralmente interpretato da Geoffrey Rush ed Emily Watson (nei panni dei genitori adottivi della protagonista) e da una sorprendente giovanissima Sophie Nélisse (ginnasta dalla promettente carriera ora prestata al cinema), il film cattura grazie al suo messaggio forte e chiaro, nonostante la visione un po’ semplificata della Germania nazista.
Valore aggiunto della pellicola è quel “narratore invisibile”, la Morte, che diventa, scena dopo scena, la voce critica della storia. Una voce fuori campo che interviene all’inizio e alla fine del film, perché la forza dello spirito umano è capace di lasciare stregata perfino la Morte.
Elena Bartoni