The Bay – Recensione
Il riversamento di escrementi di pollo nella baia di Chasepeake, la cui comunità dipende dall’acqua per il proprio sostentamento, provoca un disastro di immani proporzioni. Dopo qualche anno di silenzio Barry Levinson torna dietro la cinepresa e confeziona un (presunto) apologo ecologista in forma di thriller simil-documentaristico. L’ambizione del regista è dichiaratamente quella di intrattenere lo spettatore, all’insegna però di un realismo allarmante che infonda alla platea una paura viscerale destinata a permanere oltre i titoli di coda. Risultati a parte, è difficile credere alla bontà delle intenzioni. Come si può intuire notando tra i produttori la presenza di Oren “Paranormal Activity” Peli (un nome una garanzia, detto con amaro sarcasmo) siamo dalle parti di quel florido sottogenere dell’horror denominato “video ritrovato”. Ho scritto “dalle parti di…” perché il film rientra nel filone soltanto a grandi linee. Il racconto si snoda infatti attraverso una sorta di resoconto multimediale, incentrato sulla continua variazione delle prospettive e dei mezzi di comunicazione coinvolti. Alle riprese televisive si alternano così registrazioni di telecamere di sorveglianza, passando da filmati web, sms, skype e chi più ne ha più ne metta. La funzione di voce narrante e di commento soggettivo alle immagini è svolta dalla giovane speacker di un tg, interrogata in quanto testimone dei fatti. Questa moltiplicazione e soprattutto frammentazione dei punti di vista, con tempi e luoghi che si passano il testimone a brevi intervalli, rappresenta già in partenza un considerevole handicap. In tal modo ci viene impedito di condividere a fondo l’ottica di un personaggio o gruppo di personaggi in particolare, non possiamo identificarci con loro, e di conseguenza viene meno anche l’angosciante tensione a cui la storia sembra puntare. Gli stessi interventi fuoricampo della giornalista sono a volte superflui e inopportuni, specie quando vanno a intaccare sequenze dove gli avvenimenti parlerebbero benissimo da soli. Se di messaggio critico/sociale si può parlare, non si capisce come possa passare attraverso un prodotto ripetitivo, troppo lungo (e siamo sugli 80 minuti scarsi di durata!), spesso frettoloso e a tratti invece verboso, percorso si da una certa ironia ma privo di cuore. Ha piuttosto l’aria di un esercizio di stile girato con poca convinzione da parte di Levinson, al servizio delle astuzie commerciali in cui si distingue da tempo Oren Peli. In quanto co-produttore, nonché autore del soggetto, Levinson potrà se non altro raccogliere gli eventuali frutti al botteghino, il che non impedisce di consigliargli una scelta più oculata di futuri progetti.