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The Congress – Recensione

Ispirato al lungimirante “Il Congresso del Futuro” di Stanislaw Lem, “The Congress” di Ari Folman ci porta in un mondo parallelo, lontano ma allo stesso tempo troppo vicino, dove la tecnologia e le case farmaceutiche hanno preso il sopravvento, in un ritratto del futuro a tratti confuso, ma molte volte affascinante.

Robin Wright, che interpreta se stessa, riceve da un grande Studio l’offerta di vendere la sua identità cinematogra@257;ca: verrà scansionata e di lei verrà creato un campione così che lo Studio possa utilizzare la sua immagine a piacimento in qualsiasi tipo di @257;lm di Hollywood. lo Studio, inoltre, le promette di mantenere il suo alias digitale per sempre giovane. Robin, passati 20 anni, si ritrova in un mondo animato dove si scoprono i postumi di tutte quelle persone che hanno deciso di vendere la propria anima agli Studios.

Studios luciferini a cui donare la propria anima in cambio di soldi e celebrità. Folman, dopo il grande successo di Valzer con Bashir, torna sui nostri schermi con un’opera complessa, piena di sottotesti e metafore che funziona molto bene nella prima parte, ma che nella seconda diventa a tratti confuso e con, decisamente, troppa carne al fuoco.

Nonostante questo però “The Congress” ha il potere di rimanere per tutte le sue due ore, una pellicola estremamente affascinante, grazie alla commistione di generi (live action, animazione, video arte e video musicale e un leggero pizzico di sci-fi), ma anche grazie alle forti tematiche che Folman decide di approfondire.

Infatti a quello che aveva già profetizzato Lem di un futuro in cui attraverso una pastiglia si sarebbe potuto avere il pieno controllo sulle nostre emozioni, aggiunge una riflessione sul ruolo del cinema e, in particolar modo, dell’attore, in un’ epoca tecnologica come la nostra.

Robin Wright, interpretando se stessa, diventa il feticcio perfetto per esplorare questa tematica dell’era post Avatar, dell’era post 3D. L’attore serve ancora oppure ormai il computer può sostituirlo in tutto e per tutto e con lui si possono mettere in discussione anche altri ruoli come, ad esempio, il direttore della fotografia?

Attori che quindi non diventano più persone, ma entità, e al pubblico sembra andare a bene purché essi continuino ad incarnare quel simbolo di continua gioventù e bellezza e in un mondo in cui, come disse Tina Fey agli ultimi Golden Globes, esistono ancora buoni ruoli dopo i 60anni solo per Meryl Streep, la tematica diventa affascinante e piena di spunti.

Il problema con il film si crea, però, nel momento in cui Folman decide di esplorare tematiche più complesse e fantascientifiche, come, appunto, il controllo delle emozioni e della propria identità attraverso una fialetta. Staccandosi dalla realtà, fatto sottolineato anche dal passaggio all’animazione, il regista ci porta attraverso un vero trip mentale che mette insieme troppe riflessioni tutte assieme, senza dare il tempo allo spettatore di digerire tutti i ragionamenti e le metafore, che si possono, quindi, fare solo post proiezione.

Se questa parte fosse stata più chiara, in ogni caso, si sarebbe forse perso quel fascino che “The Congress”, volente o nolente, esercita su chi lo guarda, grazie anche alle alle immagini computerizzate e all’animazione, che diventano ipnotiche lasciando una libertà di narrazione davvero senza precedenti.

Sara Prian

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