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The Grand Budapest Hotel – Recensione

Una storia costruita a scatole cinesi, il racconto di un racconto, un film d’amore e d’avventura ambientato in un mondo immaginario ma allo stesso tempo ancorato a precise epoche storiche. Tutto questo e molto altro è The Grand Budapest Hotel, commedia “acrobatica” e pirotecnica, colorato racconto per immagini firmato da quel maestro di creatività che risponde al nome di Wes Anderson.
In apertura uno scrittore narra come un suo romanzo sia nato dal racconto orale di uno dei protagonisti della vicenda, Zero, a sua volta depositario dei racconti del concierge M. Gustav.
Tutto il film narra la storia di Gustave H. al servizio presso un lussuoso hotel europeo della immaginaria Repubblica di Zubrowka e del suo più fedele fattorino, Zero Moustafa, che divenne il suo più fidato amico. A far da motore alle avventure, il furto e il recupero di un celere dipinto rinascimentale, la violenta battaglia per un’enorme fortuna di famiglia alla morte della ricca contessa Madame D, e una dolce storia d’amore. Il tutto in un periodo compreso tra le due guerre mondiali, mentre il continente europeo stava vivendo una radicale trasformazione.
Una fantasmagoria si, ma con una precisa matrice letteraria. Il film è infatti dedicato dal regista allo scrittore Stefan Zweig, autore austriaco attivo tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento (i cui scritti vennero bruciati nel 1933 dai nazisti) molto amato da Anderson.
Su questa base, il regista innesta una vicenda movimentata, cinetica e comica, come si legge nelle note di regia, una storia senza tempo di amicizia, onore e promesse. Anderson frulla in questa sua opera un miscuglio di ispirazioni: da Zweig, al cinema degli anni ’30 di geni della commedia come Lubitsch e Billy Wilder, agli scritti di Hannah Arendt e Irène Némirovsky. Al centro di tutto, un uomo molto speciale, l’enigmatico concierge Monsieur Gustave.
Punto forte della vicenda è proprio la sua collocazione spazio-temporale, una località termale di fantasia ma situata in una precisa area dell’Europa orientale.
Gran parte della riuscita del film risiede nel fascino di una galleria di personaggi incredibili, a partire dai due protagonisti: il concierge Gustave,  vanitoso ma al tempo stesso insicuro, pignolo e con saldi principi, arrogante ma leale, perfettamente cucito sul fascino di Ralph Fiennes, e Zero Moustafa, il narratore della storia, il fattorino innocente ma sveglio che diviene infine proprietario del lussuoso hotel, interpretato dal sorprendente semi-esordiente originario del Guatemala Tony Revolori (e da un carismatico F. Murray Abraham nella sua versione più anziana). Attorno ai due, una sfilza di caratteri unici di cui la storia si arricchisce in progress, figure che hanno tutte un ruolo preciso nella complessa struttura del film: l’anziana contessa Madame D, la cui morte fa da motore alla girandola di avventure, interpretata da una truccatissima Tilda Swinton, il perfido figlio (e presunto erede) della nobildonna Dmitri incarnato da un mefistofelico Adrien Brody e il suo scagnozzo Jopling, un malvivente dal cappotto di pelle interpretato da Willem Dafoe, un avvocato che rappresenta le proprietà di Madame D cui presta il volto Jeff Goldblum (con tanto di barbetta ispirata a Sigmund Freud), l’immancabile maggiordomo della contessa impersonato dall’attore francese Mathieu Amalric.
Ma se tutto questo non vi basta, aggiungete una deliziosa pasticcera (l’attrice irlandese Saoirse Ronan), un Capitano della Polizia Militare (Edward Norton), un detenuto di un Campo di Internamento Criminale calvo e tatuato (un irriconoscibile Harvey Keitel) e un ordine clandestino di concierge che lavorano nei migliori hotel del mondo (tra cui spiccano le partecipazioni di Bill Murray e Bob Balaban), la Società delle Chiavi Incrociate, una delle tante invenzioni felici del film. Nei panni dell’autore della storia, Tom Wilkinson (e Jude Law nella sua versione più giovane).
Il dualismo che divide i personaggi, rappresenta lo scontro di due mondi: Monsieur Gustave, raffinato e generoso, e la combriccola che fa capo a Dmitri che procede verso il fascismo. Un’età dell’oro, romantica e fastosa, destinata a sparire con lo scoppio della guerra.
The Grand Budapest Hotel è un film che riflette sull’arte, ma soprattutto sul senso del narrare, sul suo perché, intriso di omaggi al grande cinema del passato e di raffinatezze tecniche.  La pellicola è infatti girata in tre “passi” diversi (uno per ogni epoca storica) che si stabilizzano su quello del cinema classico, un formato quasi quadrato (1.37) da cinema d’altri tempi, per gran parte della sua durata.
Un mondo-giocattolo, un caleidoscopio di colori, luoghi, personaggi, splendidi dettagli, un tono di fondo dolce-amaro, un senso dell’umorismo unico e inimitabile che deriva da un occhio indagatore felice come non mai, giustamente premiato con il Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino.
E poi quella magnifica costruzione del Grand Budapest Hotel che si staglia imponente a metà tra fantasia onirica e realtà (la location reale è stata un grande magazzino di fine secolo nella città di Görlitz a metà strada tra Germania, Polonia e Repubblica Ceca), capace di passare dai fasti di struttura termale di inizio anni ‘30, alla caduta sotto il controllo nazista, al declino negli anni ’60 dell’era comunista.
Se il rapporto tra cinema e immaginario è stato sempre strettissimo perché, come scrisse Edgar Morin, “Il cinema è sogno … è un sogno artificiale”, Wes Anderson è uno degli “artigiani” più dotati, capace di far salire lo spettatore su una magica giostra visionaria dai colori saturi, materializzando in un’autentica opera d’arte i suoi sogni di autore.  

Elena Bartoni
 

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