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The Old Man & the Gun – Recensione

“Roma Loves Bob”. Con questa frase, posta a suggello di una clip celebrativa proiettata prima del film The Old Man & the Gun, la Festa del Cinema di Roma presenta la pellicola con cui Robert Redford dà l’addio alle scene. Per questo motivo, oltre che per la scelta della storia da raccontare, il film di David Lowery è destinato con molta probabilità a restare nella storia del cinema.
Affascinante, carismatico, capace ad ogni sua apparizione di riempire uno schermo che per lui non è mai abbastanza grande, Redford non poteva che dare il suo saluto al cinema che con una storia vera.

The Old Man & the Gun narra la vicenda di Forrest Tucker, dalla coraggiosa fuga dal carcere di San Quintino all’età di settanta anni, fino a una serie di colpi senza precedenti che incantarono il pubblico e lasciarono le forze dell’ordine a brancolare nel buio. L’instancabile ladro gentiluomo Tucker infatti mise a segno moltissime rapine senza essere mai catturato. Dopo la sua ennesima evasione nei primi anni Ottanta, ormai più che settantenne, Tucker organizzò una serie di colpi leggendari con la sua “Over-the-Hill Gang” (la Banda dei vecchietti d’assalto), una banda di criminali in età che ammaliava con le buone maniere cassieri e direttori di banca per farsi consegnare cospicui bottini. Queste ultime rapine risalenti al 1981 sono narrate nel film, concentrandosi sul fatto che Tucker non si arrese mai al passare del tempo, arrivando proprio in vecchiaia all’apice della sua carriera criminale. Sulla strada di Forrest ci sono l’agente John Hunt (Casey Affleck), via via sempre più affascinato dalla personalità di questo ladro gentiluomo, e Jewel (Sissy Spacek), la donna che lo ama nonostante la sua professione.

Un ribelle ‘sui generis’, un altro fuorilegge carismatico come tanti altri interpretati nella sua illustre carriera, accompagna il saluto del divo Redford al cinema. Forrest Tucker è in un certo senso l’erede di figure mitiche come il rapinatore di treni ed esperto tiratore Sundance Kid di Butch Cassidy o il mago delle truffe Johnny Hooker de La stangata. Tucker è un talento nel rapinare banche.
E la sequenza in cui vengono mostrate in ordine cronologico tutte le sue 16 fughe a partire dal 1936 (quando scappò dal riformatorio) fino al 1981 (ma nella sua carriera criminale evase ancora, per ben 18 volte in totale), sembra un omaggio cinefilo alla carriera di un divo che si è effettivamente dimostrato abile in tante ‘fughe’: da qualsiasi facile etichetta (da quella di sex-symbol, a quella di attore impegnato in battaglie civili, politiche ed ecologiste), da qualsiasi imposizione o bavaglio.

La vicenda raccontata nel film è reale. La storia di questo criminale che raggiunse l’apice della sua carriera da anziano è stata raccontata da David Grann in un articolo per il “New Yorker” nel 2003, tre anni dopo che Tucker era stato rispedito in prigione all’età di 80 anni per l’ennesimo colpo.
Un uomo complesso, pieno di vita e amante del rischio, ma soprattutto un uomo dotato di grande ironia, il personaggio di Tucker rispecchia in pieno il Redford uomo e artista. 
Per dare il suo addio alle scene, l’attore si è affidato alla mano di David Lowery, regista che aveva avuto modo di conoscere al Sundance Film Festival e qui al suo terzo lungometraggio. 
Oltre a mettere al centro un antieroe che è una ‘summa’ dei tanti personaggi interpretati dal Redford attore, il film mostra di saper giocare bene con i tanti generi della vecchia Hollywood: scontri in stile western, colpi grossi, inseguimenti tra criminali e poliziotti dei gangster movie anni Settanta. Infinito l’elenco degli omaggi: dai già citati Butch Cassidy e La stangata, da Nick Mano fredda a Bonnie & Clyde.
Evidente il forte legame tra personaggio e interprete: Forrest come Robert è prima di tutto un uomo che non scende a compromessi, uno capace di sacrificare molto, tra rinunce e rischi. 
In una perfetta simbiosi tra il personaggio e il suo interprete, è come se il film esplorasse come si sono evoluti gli antieroi della prima parte della carriera di Redford, e come sarebbero invecchiati quegli ‘artisti’ della rapina mantenendo una scintilla sempre accesa nello sguardo. 

Sensazioni come l’amore, i rimpianti, l’avvicinarsi della fine di un cammino, Forest è un uomo che vuole continuare a fare ciò che gli riesce meglio.
In questo contesto si inserisce la caccia tra gatto e topo innescata dall’agente Hunt (interpretato magistralmente da Casey Affleck), in un periodo storico in cui un poliziotto si poteva prendere tutto il tempo per inseguire i malviventi, quando lo spirito della caccia aveva ancora un suo perché, quando le informazioni non erano condivise in tempo reale tra gli stati diversi.
Una caccia lenta per un rapinatore che non amava la violenza gratuita, un uomo per cui i banditi migliori erano come degli attori di teatro capaci di ipnotizzare i presenti con la sola forza della loro personalità. Tucker aveva un’arma ma non la usava e il regista si impegna a non farla vedere mai (mentre lo coglie nel gesto simbolico di simulare una pistola con la mano alla fine di un inseguimento). E’ solo una delle tante scelte indovinate di un regista che lavora bene sul mito e sulla memoria del passato (attraverso l’uso di fotografie o pezzi di carta) scegliendo uno stile semplice, asciutto, ispirato a una certa New Hollywood. 
Un personaggio più aderente al suo essere uomo e alla sua esemplare carriera Redford non lo poteva trovare: stessa dedizione, stessa capacità di fare ironia su se stesso, stessa capacità di entusiasmarsi come un ragazzino a qualsiasi età.
“A me non interessa guadagnarmi da vivere, a me interessa vivere”, afferma ad un certo punto Tucker, un uomo che riesce a vivere (sorridendo) in un solo modo, facendo quello che gli piace davvero (anche se si tratta di rapine). 
Queste sì, sembrano davvero le parole perfette con cui Redford saluta sorridendo il suo pubblico.

Elena Bartoni 

 

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