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The reluctant fundamentalist – Recensione

Film d’apertura – Fuori Concorso della 69. Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, diretto dalla regista indiana Mira Nair, The reluctant fundamentalist , e’ una delicata e minuziosa analisi sul dialogo fra le culture, dove est e ovest non sono solo dei confini geografici ma uno specifico modo di intendere le proprie ” verità fondamentali”. Un divario profondo quello che si e’ creato fra il mondo islamico e quello occidentale dopo gli attacchi terroristici dell’ 11 settembre, un abisso nel quale il sospetto e la ritrosia nei confronti di una cultura altra ha in qualche modo sentenziato la fine della benché  minima comprensione reciproca. Tratto dall’omonimo romanzo di Mohsin Hamid, bestseller internazionale tradotto in 25 lingue, il film racconta la storia di un giovane e promettente analista finanziario pakistano, Changez Khan e della sua ascesa nel mondo di Wall Street. Da spregiudicato Gordon Gekko, desideroso più che mai di ottenere successo e fama (non immeritatamente!), Changez, riscopre le proprie radici in seguito alla scossa emotiva provocatagli dalle ripercussioni rivoltegli in seguito agli attacchi alle Torri Gemelle. Il continuo sentirsi sottoposto alla pubblica gogna, semplicemente per il fatto di essere islamico, e’ un fardello troppo grande da sopportare a lungo. Il dialogo e’ la risposta, da qui la decisione di tornare in Pakistan e insegnare ai giovani studenti a rispettare e valorizzare i loro punti di forza. Ma il rapimento di un suo collega americano lo pone sotto l’occhio del ciclone. La regista pone la sua lente di ingrandimento su un fenomeno come quello del pregiudizio incondizionato, sottolineando come noi stessi nella comunicazione con gli altri spesso e volentieri ci limitiamo ad ascoltare porzioni minuscole di pensieri più profondi. Un cast internazionale di altissimo livello a cominciare da un Riz Ahmed (già visto nel divertente Four lions di Christopher Morris) credibile e convincente, a Kate Hudson, Kiefer Sutherland, Liev Schreiber e Martin Donovan, per un film che sebbene proceda spedito nell’impianto narrativo, appare nella sua riflessione decisamente in ritardo rispetto all’analisi sul terrorismo e le conseguenze che l’11 settembre ha avuto nella storia recente.

Serena Guidoni

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