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The Truman Show – Recensione

Vivere all’interno di un’enorme e realistico set televisivo. Essere (a tua insaputa) la star di un reality-show visto da milioni di telespettatori. Scoprire che tutte le persone che conosci sono attori (come tuo padre, il tuo migliore amico e tua moglie pagata per l’affetto ma anche per il sesso). Non avere segreti a causa di telecamere invisibili che ti spiano (rapporti sessuali a parte) 24 ore su 24. Potrebbe sembrare impossibile, ma oggi non sembra poi così lontano dalla realtà. Quello di questo film è il primo “show” in cui la persona da cui prende il nome non è né un presentatore né un attore, ma un ostaggio inconsapevole di un network televisivo, ovvero Truman Burbank, un allegro trentenne dalla monotona esistenza, vissuta fino a quel momento in una fittizia cittadina-isolotto dal nome Seahaven. Arriverà a rendersi conto che l’unica persona “vera” che conosce è se stesso e che rappresenta suo malgrado il paradossale e bizzarro punto di incontro tra “l’apparire” (nel senso “dell’apparire” in tv) e “l’essere” (il non recitare, ma “essere” se stessi).  

Si potrebbe fare un parallelo tra l’originale parabola del protagonista e la fuoriuscita di un fedele adepto dalla setta o culto religioso da cui è manipolato. Jim Carrey (nella sua prima prova attoriale impegnativa) crede di avere tutte le certezze. Crede di sapere cosa è vero e cosa non lo è. Vive in una bella cittadina con una bella moglie. Rappresenta l’americano medio e (apparentemente) non ha problemi. Nonostante questo comincia a non fidarsi più di ciò che il “guru” (a lui sconosciuto) interpretato da Ed Harris – creatore del programma tv che si atteggia ad artista concettuale, a metà strada tra un “dio” e un filosofo che ha il suo studio nascosto nell’azzurro cielo fittizio – gli propone e comincia quindi con grande forza di volontà a cercare la verità. Partendo dalla ragazza di cui si innamorò (una comparsa che trasgredendo le regole gli diede il primo tassello per capire) e che venne portata via da lui (e dal programma). Arriva addirittura a superare la sua fobia per il mare (l’ultimo grande ostacolo) creata a tavolino dai vertici del programma per non farlo mai salpare dall’eden che gli hanno costruito intorno sin dalla nascita. E alla fine del mare, finirà la finzione. Il  suo “dio” parlerà dal cielo direttamente a Truman e per la prima volta lo lascerà libero di scegliere, libero di “vivere”, non prima di averlo avvertito che lì fuori il mondo non è migliore. Un discutibile “padre-padrone” che si rivela solo alla fine democratico. Truman smetterà così definitivamente di “credere” a ciò che gli hanno sempre spacciato per vero e tornerà a riappropriarsi della sua vita e della sua identità. Sceglierà di abbandonare la soap opera a favore del libero pensiero.

In quanto a preveggenza e stratificazioni del testo cinematografico (che si presta a molteplici letture di ogni tipo) non si può che ammirare il lavoro ambizioso fatto dallo sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol che con sferzante ironia e un clima da sofisticata commedia americana che pian piano si trasforma sempre più vorticosamente in premonitore incubo orwelliano dai risvolti apocalittici, fa riflettere, divertire e indignare con una leggerezza tragicomica che ha segnato un’epoca. Insomma riesce – cosa non semplice – a parlare di argomenti “alti” con un linguaggio “popolare” (aiutato da un ottimo montaggio e da un’attenta regia). La tv nel frattempo ha dato il peggio di sé (in Italia e non solo) nella ricerca degli ascolti a tutti i costi, accontentando anche le pulsioni più trash degli spettatori più voyeuristi. Anche per questo un metaracconto di fantascienza mediatica come questo è di una grande utilità artistico/sociale e il fatto che non sia rientrato nella cinquina degli Oscar 1999 come Miglior Film fa apparire le scelte dell’Academy molto spesso incomprensibili e un po’ surreali. Chi vinse quell’anno? Il molto più modesto “Shakespeare in Love”, che scippò a Niccol anche l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale.

Tra gli altri meriti dell’opera, c’è sicuramente la direzione degli attori: accanto ai due opposti poli Jim Carrey/Ed Harris (entrambi premiati – insieme alla colonna sonora – con il Golden Globe), un ricco cast di comprimari come Laura Linney, Natascha McElhone e Paul Giamatti diretti da Peter Weir, regista australiano (ma hollywoodiano d’adozione) che riesce con attenzione e un’apprezzabile cura dei particolari a delineare quella che a ben vedere –  a livello sia tematico che visivo – risulta essere, tra le altre cose, anche un’acuta riflessione sul concetto di American Dream.

Matteo Carletti

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