The Woman in Black – Recensione
Dal romanzo “La signora in nero” (1982) di Susan Hill. Siamo in Inghilterra, fine dell’800. Arthur Kipps, giovane avvocato londinese rimasto vedovo e con figlioletto a carico, deve recarsi nello sperduto villaggio di Crythin Gifford per questioni legali riguardanti l’ormai deceduta proprietaria di una grande villa. Entrato nell’abitazione, scopre i segreti di un sinistro passato all’insegna del dolore e della vendetta. E appare una donna vestita di nero, mentre alcuni bambini del luogo muoiono tragicamente. Fresco dei suoi successi planetari nei panni di Harry Potter, il neo-barbuto Daniel Radcliffe è protagonista di questa struggente ghost story vittoriana sui temi del lutto e di un aldilà fonte di speranza e paura. Tinte fosche a volontà e toni crepuscolari, per atmosfere pervase da una soffusa e funebre malinconia. Fra il romanticismo e l’orrore, il racconto ambisce dichiaratamente a rispettare la lettera e lo spirito del libro mantenendo però un taglio cinematografico che lo renda appetibile ai patiti dello spavento su celluloide. L’operazione può dirsi riuscita sul piano puramente figurativo, grazie ad una fotografia suggestiva e ad una scelta vincente delle ambientazioni. Partendo da luci e colori prima che dall’oscurità, la cinepresa conferisce alle immagini un fascino vagamente onirico tanto nelle sequenze all’aperto quanto negli interni. Basti vedere le stanze della lugubre casa, in cui all’inquietudine si accompagna il senso del disfacimento e del rimpianto. Sotto altri aspetti, però, i passaggi descrittivi sono facilmente bollabili come “pesanti” dal pubblico in sala e spesso i momenti di terrore, legati ad espedienti come l’effetto sonoro a tradimento, lasciano il tempo che trovano. A quanto pare la forza evocativa della pagina scritta è difficilmente replicabile in una trasposizione per lo schermo, per quanto accurata e professionale. Non a caso il film ha un positivo scossone nella seconda parte, quando il soprannaturale balza in primo piano e l’horror suggerito viene scalzato da quello esplicito. La regia di James Watkins dà il meglio di se nel finale, svergognato o coraggioso a seconda dei punti di vista, e comunque di efficacia indiscutibile. E Radcliffe? Si impegna a fondo, quindi definirlo inamidato sarebbe ingeneroso, ma la sua prova risente della compostezza di un personaggio segnato dall’esistenza ed emotivamente contenuto. Certo liberarsi dell’ombra di Harry Potter sarà un’impresa titanica.