The Zero Theorem – Recensione
Seguito ideale di “Brazil” (1984), “The Zero Theorem” è un classico film di Terry Gilliam dove l’ironia si unisce alle riflessioni più importanti.
Qohen Leth (Christoph Waltz) è un impiegato che è deciso a cercare il senso della vita, partecipando ad un programma della propria azienda.
La pellicola è un film cupo su tematiche, ma colorato nelle immagini, facendo un grande uso del grottesco e del gran nonsense. L’inizio dove si vede un uomo nudo e pelato davanti ad un immenso cosmo ricorda il “The Fountain” di Aronofsky, ma in pochi secondi capiamo subito che siamo davanti ad un’opera completamente diversa, anche se, in entrambi, si cerca di riflettere sulla vita.
Il mondo del cineasta visionario è composto da personaggi strani che si comportano in maniera poco consona ed esagerata, non caratterizzati psicologicamente, senza storia se non quella di farsi mezzo per esprimere un messaggio od una tematica. Nonostante “The Zero Theorem” rischi di girare più volte su se stesso, Gilliam ha la maestria di non far mai calare il ritmo, tenendo alta l’attenzione, grazie anche ad un bravissimo Christoph Waltz.
Siamo davanti ad una crisi esistenziale del protagonista, che ricerca ossessivamente il senso di tutto e, in special modo, della vita. Un’esistenza diventata per tutti schiava del consumismo, della mancanza di privacy e della virtualità, dove anche il rapporto sessuale si fa attraverso il web. Una città quella che prende vita sullo schermo composta da cittadini ignari, che non si considerano tra di loro e che vivono nel caos, ma da soli, bombardati da notizie ed immagini che manipolano il cervello.
Questa è la visione che Terry Gilliam ha del mondo di oggi, una visione negativa dove solo poche persone finiscono per interrogarsi su quale sia il senso di tutto quello che stanno vivendo.
Finzione e realtà vivono su due piani ben distinti con, però, una caratteristica particolare: il mondo reale è ben più fittizio di quello immaginato, a dimostrare ancora una volta come la realtà possa superare in stranezza anche la fantasia. Ed è proprio questa realtà che Gilliam critica, perché in essa c’è un umanità che si è completamente persa e che non riesce più a dare un senso alle cose. “Ho 15 anni e ci sono già un sacco di cose che mi annoiano”, in questa frase c’è riassunto tutto il peggio che la nostra società sta vivendo e Qohen lo sa ed è da qui che deriva tutta la sua frustrazione.
In “The Zero Theorem” c’è la scienza, ma non manca la sfera religiosa a partire dal luogo dimora del protagonista, una chiesa, e al nome del protagonista stesso. Qohen, infatti, richiama per assonanza il Qoelet, libro biblico in cui si parla, manco a farlo apposta, di vanità; elemento di cui la società che critica Gilliam possiede in abbondanza.
Non è più Gesù a giudicarci, ma il mondo, la televisione, i media e per niente il regista sostituisce nel crocefisso la testa del Cristo con una telecamera stile Grande Fratello. Connessi sempre a tutto eppure da soli, è di questo disagio che il regista vuole farsi portavoce.
Un film complesso che Gilliam giostra in maniera intelligente attraverso momenti di ilarità e personaggi particolari che riescono a veicolare il messaggio con destrezza.
Sara Prian