Transformers 4: L’Era dell’estinzione – Recensione
Cinque anni dopo aver salvato la Terra dai malvagi Decepticon nella memorabile battaglia di Chicago, gli Autobot sopravvissuti sono braccati e perseguitati da un’umanità divenuta ostile. Optimus Prime e compagni avranno l’aiuto di un meccanico squattrinato (Mark Whalberg) e di sua figlia per affrontare i nuovi nemici all’orizzonte. Gente priva di scrupoli, appropriatasi della tecnologia all’origine degli Autobot, arriva a generare una nuova incarnazione di Megatron. Ancora gli eroi metallici a imperversare sui nostri schermi, sempre con Michael Bay saldamente dietro la cinepresa. Il regista californiano è stato spesso snobbato in quanto esponente di un cinema tutto apparenza, votato al culto dell’immagine (ricercata e patinata) e carente quando si tratta di trasmettere genuine emozioni. Questi critici non ritratteranno dopo aver visto il quarto Transformers, anche perché vi ritroveranno quel ridondante ipertrofismo cibernetico che Bay aveva già spinto fino all’apoteosi in Transformers 3. Prima parte introduttiva che scorre liscia, senza strafare, poi… poi il fattore action dilaga a macchia d’olio e, come l’”animale” in una famosa canzone di Franco Battiato, si prende tutto o quasi. Si può rimanere piacevolmente sbigottiti o nauseati, senza possibile alternativa, nel recepire un simile accumulo di mutazioni fisiche, inseguimenti, risvolti catastrofici di taglio pirotecnico, incursioni nel genere horror. Chiaramente il rinnovato cast “umano”, pur non ridotto a mera tappezzeria, occupa un ruolo subordinato rispetto all’esibizione di budget ed all’ostentazione di maestosità tecno/spettacolare. La scena è dominata dal grandioso impianto scenografico (rimarcato a dovere tramite dolly, campi lunghi, carrellate) e da effetti speciali ai quali va persino stretto l’aggettivo “mirabolanti” tale è la veridicità conferita alla messinscena. Come spesso accade nei mega blockbuster, la durata spropositata è inzeppata di troppi personaggi (tre cattivi principali stavolta) ed avvenimenti, e la presa sullo spettatore alla lunga si allenta. Se le singole componenti del prodotto si fanno apprezzare, incluso il disegno dei caratteri al netto di qualche clichè, è difficile che si imprimano nello spettatore attraverso un’andatura tanto affrettata. Non sfugge al clima da luna park l’arrivo dei Dinobot, tra i ritorni più attesi da parte dei 30-40enni ex baby appassionati del cartoon anni ’80. Peccato soprattutto per il loro preventivabile restyling, forse un po’ spersonalizzante, e il non sentirli pronunciare una sola parola (i Dinobot classici si facevano sentire, eccome!). Adatto ai più giovani, preferibilmente in sala e in 3D.