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Tutte le mie notti – Recensione

La sezione “Alice nella città” di questa tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma presenta a volte delle piccole interessanti ‘gemme’.
E’ il caso di Tutte le mie notti, firmato dal giovane regista fiorentino Manfredi Lucibello al suo esordio nel lungometraggio di finzione, thriller psicologico dalle atmosfere notturne e rarefatte, raffinato gioco basato su tre personaggi misteriosi e complessi.
Il profondo blu di una notte d’autunno, una ragazza che corre per strada in fuga da qualcuno o da qualcosa, l’auto di una donna che la soccorre e la porta con sé, e poi una villa isolata vicino al mare, una ferita, l’espressione angosciata di un giovane viso dal trucco sfatto, l’apparente compostezza borghese di una donna avvocato: le premesse per intrigare lo spettatore ci sono tutte.
La capacità di trattare un ‘tema forte’ con una certa ‘elegante leggerezza’ (sono parole di Marco Manetti) hanno colpito i Manetti Bros. che, insieme a Carlo Macchitella, hanno deciso di scommettere su questo esordio in veste di produttori.
L’unità di tempo e di luogo (quasi tutta la vicenda ha luogo nella villa) ma soprattutto la tensione crescente fra i tre personaggi sono il punto di forza di Tutte le mie notti.
La prima parte del film è giocata sul rapporto tra due donne, la giovane prostituta Sara e l’avvocato Veronica, chiuse nello spazio claustrofobico di una villa. Sono due donne di età diversa, due tipi di femminilità messe a confronto: una sensualità esibita, quasi sfrontata che trova il suo punto di forza su un esibito sex-appeal da una parte e una femminilità quasi sopita, nascosta sotto gli abiti sobri di un avvocato che ha dovuto lottare per acquisire una posizione professionale dall’altra. 
Entrambe nascondono forti fragilità: una giovane squillo solo in apparenza libera che ha sulla coscienza il peso di aver coinvolto un’amica in una serata finita male e una donna matura che ha dovuto anteporre a sé stessa un uomo verso cui è fortemente debitrice. L’avvocato sta difendendo un cliente facoltoso e la ragazzina ha visto qualcosa che potrebbe mettere l’uomo nei guai. 
Ma tutto ciò che appare non è quello che sembra: la giovane prostituta è una sexy fragile bambolina, un’anima persa, una delle tante ragazze disposte a vendere il proprio corpo per avere i soldi per comprare quella borsa o quell’abito firmato in più e l’avvocato nasconde un tormentato passato oltre che forti sentimenti a lungo nascosti per il suo capo.
La tensione sale proprio con l’entrata in scena del terzo personaggio della storia, Federico Vincenti, che rivela l’intreccio thriller del film (di più non sveliamo). Niente è come era sembrato e il destino dell’amica della giovane squillo ha avuto un tragico epilogo.
E’ proprio Federico a svelare altre complesse sfaccettature: solo in apparenza è un meschino e freddo industriale, nella realtà un uomo sull’orlo della disperazione e della bancarotta. E lo scontro tra le tre personalità deflagra proprio con l’entrata in scena di questo terzo personaggio. Tutti sono a prima vista qualcosa che diventa qualcos’altro: complici, antagonisti, vittime, carnefici, sodali. Ma soprattutto persone sole.
Nel tratteggiare queste solitudini, ancora più frequenti nel mondo di oggi, la regia di Lucibello è efficace e dipinge senza infingimenti un mondo dove non ci sono più buoni e cattivi, probi e disonesti, ma solo anime sole e alla deriva. Un mondo desolante, dove la crisi economica e la corsa al denaro calpesta tutto, dove c’è solo oscurità, belle ville ma vuote e fredde.
Perfetti sono i tre interpreti: Benedetta Porcaroli, intensa ‘baby squillo’ capace di comunicare la sua sofferenza attraverso un semplice sguardo, Barbora Bobulova perfetta nel ruolo dell’avvocato dal passato difficile e Alessio Boni che dosa bene la gamma di emozioni di un personaggio in bilico tra tensione trattenuta e disperazione. Il regista dimostra di saper destreggiare bene la macchina da presa utilizzando al meglio gli spazi chiusi e claustrofobici della villa e i desolanti luoghi aperti dell’epilogo.
Lucibello è addosso ai suoi personaggi, quasi pedinandoli nel loro percorso di sofferenza e catarsi coadiuvato da una bella fotografia di Gianluca Palma e da indovinate musiche di Yakamoto Kotzuga. 
Davvero un promettente esordio.

Elena Bartoni

 

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