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Tutto parla di te – Recensione

Parlare dell’ambivalenza di diventare madri è, in una società patinata dove ogni cosa è vista sotto i lustrini, una scelta coraggiosa da parte della regista Alina Marazzi.

Pauline (Charlotte Rampling) torna, dopo anni, nella Torino che l’ha vista crescere e dove viene coinvolta dalla dottoressa Gualtieri ad aiutarla nell’assistenza psicologica delle neo mamme e di quelle in attesa. Un giorno si presenta Emma (Elena Radonicich), una giovane ballerina che sta accettando con difficoltà il suo nuovo ruolo di madre. Quando quest’ultima chiamerà in preda al panico la clinica, Pauline correrà da lei e dal loro confronto nascerà un’importante riflessione.

Amore e rifiuto; due elementi fortemente contradditori che la Marazzi vuole raccontarci attraverso queste madri, che provano un affetto innato verso la propria creatura, ma allo stesso tempo si trovano a rifiutarla come un qualcosa che si è frapposto nell’abitudine di un rapporto a due o, a volte, univoco.

“Che bella coppia!” “Non sono più una coppia, una coppia è due. Loro sono in tre”. Con questa battuta la regista sintetizza il cambiamento esteriore, ma soprattutto quello interiore che le giovani madri (e anche i padri) si trovano ad affrontare da un giorno all’altro.

Come detto, molti sono i cliché che accompagnano la maternità, amplificati da una società che si rifiuta di mostrare il lato buio di un istinto primordiale, accettato nei secoli e, dunque, impossibilitato nell’avere lati negativi. La Marazzi, invece forte della sua esperienza autobiografica, ci tiene proprio a deflagrare queste convinzioni e a mostrare l’altra faccia della medaglia, la frattura profonda che si viene a formare in alcune donne dopo aver dato alla luce il proprio bambino.

Tutto parla di te è un docufiction riuscito a metà, dove il sentimento è la colonna portante, ma la struttura narrativa è di per sé debole e concentrata sul segreto del personaggio di Pauline (abbastanza intuibile). La regia, che cerca di unire più stili differenti, risulta poco solida nel sostenere una struttura più psicologica che narrativa, che trasforma il mezzo cinema nel lettino dello psicologo.

C’è poesia, ma sembra non essere legata in maniera omogenea al resto del la storia che si staglia come analisi, ma poco come racconto.

Sara Prian

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