Yves Saint Laurent – Recensione
Un genio fragile, un maestro di creatività, un talento rivoluzionario che cambiò le regole del gioco, questo è stato Yves Saint Laurent per il mondo della moda e del costume.
Il film di Jalil Lespert segue lo stilista per vent’anni, dal 1956 al 1976. Da quando Saint Laurent (Pierre Niney), nato a Orano nell’Algeria francese, era un giovanissimo disegnatore di talento. Nel 1957, alla morte del grande stilista Christian Dior, Yves, appena ventunenne, viene chiamato a dirigere la grande maison. Tutti gli occhi sono puntati su di lui che presenta la prima collezione di alta moda per Dior. Subito dopo la sfilata, rivelatasi un successo, Yves Saint Laurent incontra Pierre Bergé (Guilluame Gallienne) che diventa il suo socio in affari e compagno di vita. In occasione della sua chiamata alle armi per la guerra d’Algeria, Yves viene ricoverato per una sindrome maniaco-depressiva. Poco tempo dopo, viene licenziato dalla maison Dior. Tre anni dopo, non senza difficoltà per trovare i fondi necessari, i due creano la Yves Saint Laurent Company, che in breve tempo diventa una delle firme più note del lusso. Nonostante le proprie insicurezze e i propri demoni interiori, grazie a Pierre Bergé che è sempre al suo fianco, Saint Laurent riesce a rinnovare radicalmente il mondo della moda dell’epoca.
Potrebbe sembrare un ovvio gioco di parole ma tant’è: Yves Saint Laurent è tornato di gran moda. Nello stesso anno, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, sono in uscita due film sul grande stilista. Questo di Lespert è il primo ad essere pronto per le sale cinematografiche e il solo biopic autorizzato e patrocinato da Pierre Bergé che ha prestato gli abiti e disegni originali per il set e perfino la montatura degli occhiali che indossava Saint Laurent. Il regista ha scelto di concentrarsi sul periodo di gloria maggiore dello stilista morto nel 2008. Sono gli anni del successo ma anche degli eccessi e dei tradimenti, compresa la relazione con il dandy Jacques de Bascher, amante anche dello stilista Karl Lagerfield, su cui si concentra l’altro film in preparazione, Saint Laurent. Diretto da Bertrand Bonello e interpretato da Gaspard Ulliel (Saint Laurent) e Jérémie Rénier (Bergé), il film, che dovrebbe uscire il prossimo autunno, è stato sostenuto da François Pinault che è proprietario del marchio YSL dal 1999 ma non da Bergé che ha anche minacciato di avvalersi del suo “diritto morale” in caso di inesattezze biografiche.
In questo suo biopic “ufficiale”, Lespert sceglie una diplomatica via di mezzo: né santino, né compiaciuta ricostruzione troppo smaniosa di scavare nei vizi privati del grande stilista. La pellicola resta in equilibrio tra due binari narrativi: la storia del genio creativo che portò una ventata di aria fresca nell’asfittico mondo dell’alta moda francese e una grande storia d’amour fou. Vita e arte, fragilità e talento, innocenza e peccato, timidezza ed eccessi. E poi un uomo, un animo vulnerabile e la sua ancora di salvezza, l’amore della sua vita e il genio degli affari, il manager (in una scena Bergé dice a Saint Laurent: “tu hai il talento, io penso al resto”).
Impossibile non ravvisare nel rapporto Saint Laurent-Bergé un evidente parallelismo con quello, sentimentale prima e solo lavorativo poi, che ha accompagnato per una vita Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, ben delineato nel documentario sullo stilista italiano Valentino – L’ultimo imperatore diretto da Matt Tyrnauer.
Pubblico e privato sono intrecciati indissolubilmente nel film di Lespert che pone l’accento sulla figura di Pierre Bergé e sul punto massimo di tensione della coppia che viene raggiunto nel 1976, anno in cui si ferma il racconto. Proprio nel momento in cui Yves e Pierre attraversavano la loro crisi peggiore, Saint Laurent dava vita alla sua migliore collezione, la Russian Ballet Collection: il talento e il tormento, la genialità e la sofferenza, la dipendenza assoluta da una forma d’arte (“potrei morire se non riuscissi a esprimermi”) e insieme il rischio di cadere in un vortice di perdizione.
Se l’opera può dirsi riuscita, il merito va ai due straordinari protagonisti. Il venticinquenne talento del cinema francese Pierre Niney (che abbiamo visto lo scorso anno nella commedia 20 anni di meno) che si è impossessato a fondo del personaggio di Yves Sain Laurent nei movimenti, nel modo di camminare, nelle espressioni del volto, e il più maturo Guillaume Gallienne (reduce dal successo di Tutto sua madre, campione di incassi in Francia, vincitore di cinque premi César) capace di eccellere nell’arduo compito di rendere verosimile l’intensità di un rapporto speciale concentrandosi su un uomo che non era un’icona da imitare. Non è casuale che entrambi gli attori siano membri della Comédie Française (Niney vi è entrato a soli 21 anni), la troupe “statale” che è una vera palestra del talento attoriale. Fondata nel 1680, ha come patrono un tale Molière, dispone di una compagnia permanente di attori, di un repertorio di tremila opere teatrali e di ben tre teatri a Parigi. Il motto della Comédie è Simul et Singulis cioè Essere insieme ed essere sé stessi.
Se solo ci fosse una simile officina di talenti anche in Italia.
Elena Bartoni