Recensione di: La bellezza del somaro
Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini, formano quella che potrebbe definirsi una partenership lavorativa inossidabile. Come per Flaiano e Fellini, Zavattini e De Sica, l’una scrive e l’altro dirige (ed interpreta!), in un’armonia e condivisione di stile e intento artistico, che ha quasi del miracoloso nel panorama cinematografico italiano. Il problema è che non sempre il risultato è altrettanto significativo, tutt’altro! Il lavorare in coppia (indipendentemente dal fatto che lo si è anche nella vita!), è indiscutibilmente un vantaggio, ma probabilmente è anche una pratica che rischia di incappare nella mancata percezione del “diverso da sé”, decisamente più fattibile tramite il confronto, aperto e stimolante, con chi non fa parte del tuo “universo”. E’ il caso de “La bellezza del Somaro”, ultima fatica del dittico Castellitto-Mazzantini, nel quale si percepisce sin da subito quanto il lavoro di regia e scrittura sia stato fatto in totale subordinazione dell’una verso l’altra. Il film, che vuole essere una commedia sui generis, dalla matrice cechoviana, sui rapporti genitori e figli, con virate ideologiche e sui rapporti sociali/casi geriatrici, ha pretese stilistiche che sulla carta faticheremmo a non trovare interessanti ed innovative (per il cinema nostrano!), ma che poi vengono rese in maniera tutt’altro che chiara. Personaggi isterici, nevrotici e ai limiti del grottesco, cadono sotto il peso della loro stessa goffaggine, e noi con loro precipitiamo in un limbo di incomprensione, delle volte del racconto stesso. La bravura degli attori non basta, e non deve bastare. Qui non si tratta di avere a che fare con un cinema incomprensibile, per la poca perspicacia di un pubblico da cinepanettoni, ma di una visione stilistica votata esclusivamente all’autocelebrazione.
Serena Guidoni